Valentina Meliadò, giornalista e storica. Nel 2006 ha pubblicato Il Manifesto dei 101. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, libro dedicato alla frattura tra partito comunista e intellettuali all'alba della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956; nel 2009, per la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, il saggio Ugo Spirito il rivoluzionario: dall'attualismo al comunismo, dedicato al viaggio intrapreso dal filosofo del problematicismo in Unione Sovietica nel 1956. Già redattrice della trasmissione radiofonica Rai Radioanch'io, e giornalista del quotidiano “Liberal”, collabora attualmente con il quotidiano “L’Opinione” e con la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”.

Recensione a
S. Plokhy, Chernobyl. Storia di una catastrofe nucleare
Rizzoli, Milano 2019, pp. 519, €18,00.

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Siamo tutti vivi per miracolo. È questo il primo pensiero cui porta la lettura di Chernobyl. Storia di una catastrofe nucleare (Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2019pp. 519), dello storico e scrittore ucraino-americano Sergej Plokhy. E non per l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl la notte del 26 aprile 1986, e nemmeno per i cinquanta milioni di curie (l’equivalente di cinquecento bombe di Hiroshima) di radiazioni che l’esplosione ha rilasciato nell’atmosfera. No. Il motivo per cui, a 34 anni di distanza, ci possiamo prendere il lusso di leggere la più toccante e documentata ricostruzione del disastro fino ad oggi pubblicata, è il puro caso. Quella variabile imperscrutabile per cui – nonostante gli errori commessi nel tentativo di mettere in sicurezza il reattore, e la presenza di tutte le condizioni per una nuova esplosione la cui portata avrebbe fatto dell’Ucraina e dell’Europa intera una landa desolata – questa non si verificò. Stabilito questo, il libro di Plokhy è molto più di una ricostruzione storica; è un viaggio crudo e commovente attraverso una tragedia che ha riguardato e riguarda ognuno di noi, ma è soprattutto un percorso nella storia del sistema ideologico e politico sovietico; una finestra sulle dittature comuniste e sulle tragedie di cui si sono rese responsabili, e in questo senso è una storia che parla anche di noi, della Cina e del Covid-19. È un libro, quindi, di grande attualità.

Il 25 aprile 1986 è una calda giornata di primavera a Chernobyl. Da soli due mesi è stato celebrato il XXVII congresso del Pcus, che ha ribadito la necessità di una accelerazione nel settore industriale e nucleare in particolare, una risposta alla crisi economica e al gap con l’Occidente che i vertici del Pcus sanno bene acuirsi sempre di più. Nella sostanza, nel corso dei decenni, il sistema sovietico non è cambiato; il perno della politica economica sono l’industria pesante e il nucleare, settori che dipendono sostanzialmente dalla burocrazia militare, ma al vertice del Cremlino, da circa un anno, c’è Mikhail Gorbacev, il segretario deciso a salvare il comunismo attraverso una serie di profonde riforme. La centrale di Chernobyl è la più grande d’Europa e soddisfa il fabbisogno energetico di una vasta area dell’Ucraina settentrionale; con lei e per lei è nata la città di Prypjat, la cui edificazione negli anni Settanta è stata seguita personalmente dal direttore della centrale, il mite Viktor Brjuchanov. Nonostante i difetti di costruzione e la scarsa qualità delle forniture edili (problema che affligge tutte le repubbliche dell’Unione, data la coincidenza tra committente ed esecutore dei lavori), con l’inaugurazione del reattore numero 4, il 18 dicembre 1983, Chernobyl è il fiore all’occhiello dell’industria nucleare sovietica. È dotata di reattori RBMK, che usano la grafite e non l’acqua come moderatore; per questo sono ritenuti  inaffidabili dagli americani, ma i sovietici li preferiscono per il rendimento doppio ed i minori costi di costruzione. E d’altronde in Urss sono considerati sicurissimi; sono stati costruiti e finanziati dal potentissimo Ministero per la Costruzione di Macchine Medie, e non sono noti problemi nelle altre centrali con i medesimi reattori.

Del grave incidente verificatosi a Leningrado nel 1975 non si sa quasi nulla perché immediatamente insabbiato, e nessuno ha potuto trarne esperienza. Quello che conta è la resa, l’adempimento alle quote di produzione stabilite anche quando impossibili da soddisfare, e l’adesione alle richieste dei numerosi esponenti in cui è suddivisa la burocrazia sovietica. Nessuno vuole essere ripreso, nessuno vuole rinunciare ai bonus e ai privilegi che possono derivare dall’adempimento alle aspettative della ottusa e rigidissima macchina statale sovietica, ma anche i reattori comunisti hanno delle procedure di sicurezza. Il reattore numero 4 di Chernobyl doveva eseguire un test sulle turbine, processo che richiedeva la disabilitazione del sistema di emergenza.

Alle ore 14:00 del 25 aprile 1986 il sistema di emergenza era stato disattivato e ci si preparava ad eseguire il test, ma una telefonata determinò un cambio di programma: il gestore della rete elettrica per l’area di Kiev, a causa di un malfunzionamento di una delle unità della centrale nucleare dell’Ucraina meridionale, pretendeva che Chernobyl mantenesse l’attuale livello di potenza fino alla sera, quando la domanda di elettricità sarebbe calata. Di fatto, per ovviare al problema, erano sufficienti gli altri tre reattori di Chernobyl, ma nessuno alla centrale osò disubbidire: il sistema di potere sovietico era piramidale e non prendeva in considerazione le competenze specifiche; un ordine impartito da un funzionario più in alto nella gerarchia politica andava rispettato e basta.

Dovettero aspettare fino alle 22 per avere il via libera allo shutdown; erano trascorse otto ore dall’arresto del sistema di emergenza. Plokhy ricostruisce con dovizia di particolari la serie di errori che determinò l’esplosione del reattore; quelli umani e quelli tecnici: la fretta e la paura delle conseguenze se il test non fosse stato eseguito, innanzitutto; la poca esperienza della squadra di turno quella notte, cui non sarebbe dovuta toccare quella grande responsabilità; l’incapacità di capire che cosa stesse andando storto, la superficialità nel valutare i segnali che indicavano la crescente instabilità del reattore, e – soprattutto – ciò che tutti ignoravano, il difetto di progettazione dei reattori RBMK. Al termine del test sulle turbine, infatti, che era durato solo pochi secondi, la potenza del reattore era fuori controllo e venne attivato lo spegnimento d’emergenza, in conseguenza del quale le barre di controllo cominciarono a calare nel nocciolo, ma la punta delle barre di controllo degli RBMK era fatta di grafite, e questo provocò un picco nella reazione e un drastico aumento della temperatura del nocciolo stesso.

All’1:23:44 del 26 aprile 1986 si sentì un boato, e due secondi dopo una seconda esplosione, molto più potente. Un vasto incendio illuminò il cielo sopra i reattori 3 e 4, ma nessuno, nella sala controllo dell’impianto, si rese conto della gravità dell’accaduto. I primi ad intervenire furono i vigili del fuoco agli ordini del tenente Volodomyr Pravyk; di fronte ad uno scenario apocalittico tutti ottemperarono al proprio dovere senza tentennamenti e senza immaginare verso cosa si fossero diretti a sirene spiegate. Prima delle sette del mattino l’incendio era stato domato, ma nell’arco di poche settimane questi giovani pompieri morirono tutti. Furono solo i primi di circa seicentomila fra uomini e donne che sacrificarono, più o meno consapevolmente, la propria salute per mettere in sicurezza il reattore, adattandosi a spalare grafite radioattiva e scavare tunnel sotterranei a mani nude. Intanto alla centrale si cercava di capire cosa fosse successo.

Funzionari e dirigenti politici si riunirono nel bunker sotterraneo predisposto in caso di attacco alla centrale. Al suo interno, secondo l’unico dosimetro di tutto l’impianto in grado di rilevare le radiazioni fino a 200 rontgen l’ora, il livello di radiazioni superava la norma di seicento volte. Sembrava impossibile. Non avendo preso in considerazione l’idea che il reattore fosse esploso si decise di aspettare. Nessuno, in Unione Sovietica, voleva mai prendersi una responsabilità: tutti erano abituati a delegare alle alte sfere, e così fecero funzionari e dirigenti di Chernobyl per non essere accusati di seminare inutilmente il panico. E le alte sfere decidevano e agivano: mentre il KGB tagliava le linee telefoniche interurbane per impedire la diffusione delle notizie relative all’incidente, una commissione governativa partiva da Mosca alla volta di Chernobyl. Nessuno, prima dell’arrivo degli esperti dalla capitale sovietica, aveva osato ordinare l’evacuazione di Prypjat, e ci volle tutta la giornata del 26 aprile per accettare la realtà: il reattore era esploso e il nocciolo danneggiato stava riversando radiazioni tutto intorno. Bisognava fermarlo.

Il 27 mattina la città di Prypjat venne finalmente evacuata. Per circa trentasei ore dopo l’esplosione la popolazione era stata abbandonata a se stessa, senza informazioni né istruzioni su come proteggersi e tutelare i propri cari, ed anche l’esodo fu ordinato ed eseguito senza troppe spiegazioni. Nel frattempo il governo sovietico badava alle sue priorità: coerenti ad una lunga tradizione di «segretezza e disinteresse per il benessere immediato del popolo» (p. 235), i vertici del Cremlino erano decisi ad insabbiare tutto e negare l’evidenza, ma questa volta il disastro non era passato inosservato. I dosimetristi svedesi di Forsmark, a 1257 km di distanza da Chernobyl, furono i primi a rilevare le radiazioni rilasciate dal reattore semidistrutto, e la sera del 28 aprile, seppure a malincuore, i media sovietici ruppero il silenzio con un laconico comunicato che parlava di un incidente alla centrale e di una indagine in corso.

Tutto qui. Altro gli ucraini non riuscirono a sapere, neanche che la città di Kiev era investita di radiazioni e che le consuete celebrazioni in grande stile del primo maggio avrebbero procurato danni irreversibili alla salute dei cittadini. Ma la guerra di informazione era appena cominciata, e l’Urss avrebbe dimostrato il suo indiscusso primato nella gestione e manipolazione delle notizie, arrivando ad invitare il direttore dell’Agenzia per l’Energia Atomica Hans Blix a Chernobyl l’8 maggio, insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali. Con la mobilitazione del Kgb ed una serie di accorgimenti e stratagemmi degni di un film di spionaggio, né Hans Blix né i giornalisti si resero conto della situazione reale. Fu un incredibile successo mediatico per Gorbacev – che il 14 maggio tenne in televisione il suo primo ed ultimo discorso su Chernobyl, imperniato sulla stigmatizzazione dell’Occidente e sulla sconcertante proposta di messa al bando dei test nucleari, mentre i cosiddetti liquidatori erano ancora al lavoro giorno e notte per sigillare il reattore esploso – ma solo all’estero.

Il rapporto di fiducia tra il popolo sovietico e i suoi dirigenti si era spezzato in modo irreversibile. Fu la definitiva presa di coscienza del disinteresse delle alte sfere per le condizioni e il destino della popolazione, che in larga parte aveva creduto alle promesse di progresso illimitato insite nella costruzione su larga scala di centrali nucleari, e nella propagandata supremazia tecnologica e industriale sovietica. Ora la verità bruciava come gli occhi e la pelle sotto milioni di curie di radiazioni; il rifiuto del bombardamento ideologico e della distruzione causata da Chernobyl pose le basi per un nazionalismo ecologico che avrebbe portato l’Ucraina all’indipendenza nel 1991.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica e le politiche di trasparenza avviate da Gorbacev dopo l’incidente devono molto a Chernobyl. La consapevolezza che determinò nella popolazione non poteva più essere contenuta con la repressione, le menzogne e la propaganda. Anche se il processo per determinare le cause dell’incidente si chiuse con il solito scaricabarile, che portò alla condanna dei soli dirigenti ucraini della centrale, il vento era cambiato e avrebbe spazzato via il comunismo dall’Europa. Ma non dal mondo.

La lettura di Plokhy offre incredibili spunti di riflessione sull’attualità, basti pensare all’atteggiamento della Cina con il Covid-19. Nel mondo globale e nell’era digitale su questo virus non abbiamo ancora certezze: le sue origini, la sua diffusione, da quanto tempo sia in circolazione. Sappiamo che qualche medico e qualche dissidente della prima ora sono spariti, e che l’Oms ha fatto, consapevolmente o meno – il dubbio è lecito – da cassa di risonanza alle bugie e alle omissioni cinesi. Come l’Agenzia per l’Energia Atomica di Blix al tempo di Chernobyl. Ma in un mondo complesso e ricco di sfide determinanti per il futuro assetto globale, il ruolo degli enti internazionali è vitale. Oppure no? C’è da chiederselo con una disamina spietata e non più rinviabile della struttura e delle attività degli organismi internazionali cui abbiamo delegato buona parte della nostra sovranità. C’è molto in gioco: le mire imperialiste delle dittature ancora in circolazione, la corsa al nucleare dei paesi in via di sviluppo. Perché domani potremmo svegliarci con un’altra pandemia. O con un’altra Chernobyl.

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