Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
P. Collier, Il futuro del capitalismo. Fronteggiare le nuove ansie
Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 319, €20,00.

Il capitalismo avrà un futuro? Trent’anni fa, caduto il muro di Berlino, una domanda siffatta sarebbe suonata grottesca. Oggi, dopo varie e devastanti (2008) crisi economiche e l’inedito scenario della pandemia, la domanda suona tutt’altro che oziosa. Paul Collier, noto economista britannico, propone in questo saggio del 2018 la sua risposta, che è positiva purché si imprima al capitalismo uno scopo etico che vada oltre il dogma della libertà d’impresa.

Il processo di globalizzazione dei mercati difetta di scopi etici non perché il capitalismo sia intrinsecamente estraneo ai valori morali ma perché, nel suo percorso di elaborazione teorica, è prevalsa in esso la finzione (tradottasi però in realtà) dell’homo oeconomicus: un idealtipo creato in vitro e la cui invenzione è stata a torto attribuita a Adam Smith. L’homo oeconomicus non persegue finalità etiche; nella sua calcolatrice razionalità egli è avido, egoista, riduce il mondo a una dilatazione del proprio ego e dei propri interessi: profitto, solo profitto e nient’altro. Questo idealtipo è stato riprodotto dalle Business Schools Internazionali in generazioni di studenti e ha finito per condizionare pesantemente la stessa struttura psicologica degli operatori economici e finanziari (si pensi al Gekko Gordon del celebre film di Oliver Stone)

Ma – e qui sta il punto – l’homo oeconomicus non coincide affatto con l’imprenditore, col capitalista, col banchiere e anzi ne costituisce una caricatura. E non fu Adam Smith a elaborare questo amorale idealtipo perché per il filosofo scozzese i sentimenti e i vincoli morali giocano nelle dinamiche economiche un ruolo altrettanto importante di quello della ricerca dei profitti. Collier rimarca il contenuto etico del liberismo smithiano e la sua estraneità rispetto all’infausto homo oeconomicus strutturato solo per se stesso e privo del senso morale e di appartenenza comunitaria. Il pragmatico progressista Collier si pone qui nel solco di quel conservatorismo compassionevole che già negli anni Ottanta del XX secolo con Gertrude Himmelfarb  (The Roads to Modernity, 1988) aveva evidenziato la centralità di compassion e responsabilità morale nell’opera di Adam Smith. Spiace però che Collier non dia conto che nel mondo anglosassone i più accaniti avversari dell’homo oeconomicus provengono dalla tradizione del conservatorismo.

All’artificioso homo oeconomicus Collier contrappone l’uomo animale sociale e creatura etica; l’autore considera naturali (ma oggi appannate) le reti comunitarie e i sistemi delle narrazioni dell’appartenenza e dell’obbligazione reciproca e chiarisce la necessità del «passaggio dall’egoismo dell’uomo economico alla persona motivata dell’obbligazione reciproca che si conosce come parte di un “noi”» (p. 48). Un capitalismo etico è fattibile: anzi, il futuro del capitalismo avverrà nel segno della proposizione di sistemi di etica (anche) economica all’altezza del XXI secolo. I pilastri del capitalismo etico vengono individuati nei valori morali comuni a tutti gli uomini (libertà; lealtà; cura del prossimo; sacralità; equità; autorità) e in tre tipi di organizzazione sociale: lo Stato etico, le corporations etiche, la famiglia. «Stato etico» è il titolo del III capitolo: l’espressione richiama terribili esperienze ma Collier la ripropone, ovviamene avendo in mente tutt’altro. Per lui le finalità etiche dello Stato si sostanziano nel welfare socialdemocratico del trentennio 1945-1975. Ma lo Stato socialdemocratico si è dissolto perché – effetto della globalizzazione – si è conferita importanza valoriale alle specializzazioni tecniche professionali a discapito dell’appartenenza comunitaria. Tra i lavoratori delle nuove specializzazioni, istruiti e dagli ottimi redditi, si è indebolito il senso di comunità territoriale e si è così creata una frattura malsana tra i “vincenti” e  il “popolo”, i lavoratori generici e di scarsa istruzione, penalizzati dalla globalizzazione e attardati con il loro ancoramento alle realtà nazionali.

L’identità del welfare state è andata perduta, ma quando una identità condivisa si sgretola «si attenua anche l’idea di avere degli obblighi nei confronti dei meno fortunati». Tra i ceti globalizzati ha fatto breccia il famigerato homo oeconomicus, privo di senso etico e di riferimenti territoriali. Eppure la base delle politiche sociali degli Stati continua a essere una realtà spaziale condivisa, cioè in ultima analisi la nazione. Il globalismo pretende di archiviare le nazioni; la conseguenza è stata l’abbandono dell’idea nazionale ai sovranismi. Tra nazionalismo e sovranismo esiste però il giusto mezzo: il patriottismo, oggi rappresentato dal presidente Macron. Il patriottismo non è né aggressivo né esclusivo però rispetta il senso di appartenenza a un luogo di origine, a una oikos. È inoltre naturale perché «l’identità basata sull’appartenenza a un posto è uno dei tratti impressi profondamente nella nostra psiche dall’evoluzione» (p. 88). In definitiva quel che Collier chiama “Stato etico” è una appartenenza storico-territoriale condivisa, sollecita del rispetto delle obbligazioni reciproche dei cittadini e aperta alle innovazioni. Un concetto forse un po’ fumoso, a meno che non lo si voglia riduttivamente identificare con l’esperimento di Macron. D’altronde, altrove nel suo libro Collier non nasconde apprezzamenti per il presidente francese, «ottimo esempio di pragmatismo» (p. 271)

Quando dallo Stato etico Collier passa alla “impresa etica” (cap. IV) le sue pagine si fanno più precise. La variante più deleteria dell’homo oeconomicus è incarnata da quei Chief Executive Officers di multinazionali attenti alla massimizzazione dei profitti a brevissimo termine. Soggetti avidi di potere e di denaro (Collier riporta il caso del CEO della Deutsche Bank), essi tagliano i costi di investimento e del personale al solo fine di incrementare il più possibile gli utili trimestrali sui quali percepiranno lauti premi. E poiché essi cambiano in fretta (e con bonus di uscita favolosi) passando da un’azienda a un’altra, a loro nulla interessa della reale solidità dell’impresa. D’altronde i CEO rispondono a una proprietà anonima di Fondi di Investimento, anch’essi interessati solo a profitti a breve termine. Questo è un capitalismo di speculatori, nemico della vera competizione e della produzione. Quando una impresa, diretta da siffatti CEO, persegue il profitto a discapito di tutto il resto, collassa e trascina con sé non soltanto gli incolpevoli dipendenti e le loro famiglie ma anche l’indotto. Eppure nel capitalismo etico «lo scopo di una azienda è adempiere ai suoi obblighi nei confronti dei clienti e del personale» (p. 95). Elementi essenziali nella sana gestione imprenditoriale sono la solidità della struttura (quindi: investimenti, ricerca, serietà, gratificazione del personale) e la soddisfazione della clientela. «Non c’è niente di intrinsecamente disonesto nel capitalismo. Il profitto non è tanto ciò che definisce lo scopo di una azienda quanto un vincolo che le impone una disciplina» (p. 101). Collier ha in mente l’imprenditore illuminato, magari un po’ filantropo. Ma è merce rara in un mondo in cui i proprietari di imprese sono i Fondi e i veri gestori del potere i CEO. Ecco dunque la diffidenza di Collier vero i ristretti Consigli d’Amministrazione composti da top manager. Non è eticamente corretto lasciare a ristretti comitati la governance delle grandi imprese a rilevanza pubblica. Una intelligente soluzione sembra a Collier quella tedesca: attribuire forza legale alla rappresentanza dei lavoratori nei CdA aziendali e magari anche ai comitati dei consumatori. Insomma: l’impresa persegue il profitto, ma «nel rispetto dell’interesse pubblico» (in altre epoche si sarebbe detto: “nel rispetto del superiore interesse nazionale”).

Etica l’impresa, ma etica anche la famiglia. Non ci risulta una vicinanza di Collier al cristianesimo, ma le pagine che egli dedica alla famiglia riecheggiano le idee cristiane sul tema. La famiglia, «la più potente di tutte le entità che ci innalzano al di sopra della dimensione individuale» (p. 130), costituisce davvero la cellula base della società. Per “famiglia” Collier intende quella fondata sul matrimonio, assunzione pubblica e solenne di vincoli: la coppia sposata, responsabile verso i figli e gli anziani genitori. Essa ha subìto negli ultimi decenni profondi shock i cui risultati negativi sono sotto gli occhi di tutti. Miserie e diseguaglianze vengono acuite in perverso circolo vizioso dallo sfaldamento delle famiglie soprattutto ai livelli bassi della scala sociale. Qui abbondano le famiglie monogenitoriali i cui figli tendono a ripetere i medesimi e fallimentari schemi di relazioni estranee ai vincoli di matrimonio. Questo accade perché il capitalismo degli utilitaristi pone al centro l’individuo astratto e relega la famiglia tra le anticaglie. Una vera «tragedia» (p. 145). Di converso tra i ceti superiori e istruiti la famiglia resiste e ai figli vengono assicurati serenità e stabilità degli affetti. Oggi in Inghilterra «nella metà meno istruita della popolazione molte famiglie stanno disintegrandosi; nella metà più istruita assistiamo a un proliferare di dinastie» familiari (p. 140). Una società che davvero abbia a cuore la giustizia nei rapporti economici non può non difendere e supportare la famiglia.

La seconda parte del volume propone soluzioni per la «ricostruzione di una società davvero inclusiva». Il lettore interessato potrà valutare da sé la plausibilità o praticabilità dei rimedi pensati da Collier. Ma una delle sue proposte merita qui un breve esame. Essa ha ad oggetto il gap sempre più ampio tra metropoli ricche e cosmopolite e città di provincia povere e relegate nel ristretto recinto nazionale. Le metropoli costituiscono agglomerazioni e connettività, le attività imprenditoriali e di servizi traggono profitto dalla concentrazione in spazi ristretti di milioni di cittadini. Già nell’Ottocento l’economista americano Henry George aveva “scoperto” che tutti i vantaggi dell’agglomerazione di lavoratori nelle metropoli si accumulavano sotto forma di affitti nelle mani dei proprietari di case (cfr. p. 178). Tutti coloro che gravitano attorno a una metropoli contribuiscono alla agglomerazione; ma solo pochi ne traggono profitto, e quasi senza fare nulla: i proprietari immobiliari, senz’altro; ma anche i lavoratori specializzati del terziario più avanzato. Per i professioni di elevata specializzazione è essenziale operare in un contesto di prossimità con altri professionisti di analoga specializzazione. E si propone l’esempio dell’avvocato d’impresa operante sulla City londinese: quanto guadagnerebbe quello stesso professionista se operasse in una cittadina di provincia del Devonshire? Il grosso del surplus derivante dalle agglomerazioni affluisce così nei redditi dei professionisti altamente specializzati e dei proprietari immobiliari. Ma si tratta di un reddito svincolato dal merito: una rendita di posizione, alla quale però contribuiscono milioni di persone che ne restano escluse. Secondo Collier è eticamente giusto sottoporre a elevata tassazione quella frazione di reddito dei professionisti specializzati derivante non dal merito ma dall’agglomerazione. Le risorse così recuperate verrebbero drenate dalle metropoli del globalismo alle depresse cittadine di provincia secondo finalità produttivistiche che l’autore si perita di illustrare. Sarebbe anche un parziale ristoro per tutte le risorse affluite in passato dalla provincia verso la metropoli e una manifestazione tangibile di quanto il capitalismo, volendo, possa perseguire finalità etiche.

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