Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Individuo e sovranità

È una tesi ben nota e accettata ormai da tutti che le moderne democrazie e società occidentali si basino sull’idea di individuo responsabile e capace di agire e di scegliere i propri rappresentanti politici. Tale idea politica riflette e si riflette anche nell’altrettanto nota idea sociale secondo la quale ogni individuo, oltre ad esprimere un’opinione politica come cittadino[1], è in grado di bastare a sé stesso attraverso il lavoro e la produzione economica. La società liberale e liberistica si immagina il popolo come una somma di individui autonomi e, per certi versi, anche sempre di più atomizzati che agiscono in piena libertà e svincolati da ogni legame con gli altri[2]. Questi individui deciderebbero liberamente di farsi una famiglia sulla base dei propri affetti, di trovare un lavoro sulla base delle proprie capacità, di agire politicamente sulla base di un’idea maturata responsabilmente al fine di raggiungere un bene comune. Ma questo paradigma a cui noi oggi crediamo è veritiero? Corrisponde alla realtà dei fatti?

Prima di provare a rispondere, occorre ritornare all’origine filosofica del problema. È possibile rintracciare all’inizio della modernità la matrice individualistica che si insedia per la prima volta in Occidente. Scolasticamente, la si fa partire dalla nascita della borghesia nel periodo rinascimentale, quando diventa importante la libera iniziativa economica di commercianti e banchieri che iniziano ad accumulare ricchezze come imprenditori a vantaggio primariamente di sé stessi e delle proprie famiglie. Contemporaneamente si assiste ad una crescente presa di coscienza della propria individualità anche sul piano religioso con l’avvento del protestantesimo e con l’idea di autocoscienza e responsabilità individuale di fronte a Dio. Si insedia sempre di più l’idea che la società non sia altro che una somma di individui indipendenti: monadi senza finestre. I ceti, le famiglie, le corporazioni perdono lentamente la loro centralità, considerati divisivi e miopi da un punto di vista economico dato che i traffici ormai internazionali e globali, dopo la scoperta delle Americhe, richiedevano una visione più ampia e profonda che superasse i limiti delle proprie città e contee. Sul piano militare, la conquista di territori da parte di principati più potenti e sempre più vasti, compresi “naturalmente” entro confini fisici e geografici, produsse la formazione degli Stati, difesi da milizie sempre più numerose, preparate, organizzate e anche tecnologicamente equipaggiate con l’adozione della polvere da sparo, che rese possibile l’uso dei fucili e dei cannoni. A questo punto gli Stati si dotarono di una religione che li emancipava dall’universalismo cattolico liberando il sovrano dalla pretesa della chiesa di intromettersi negli affari dello Stato rafforzando il ruolo del re, che si ergeva come unico detentore dei poteri temporale e spirituale: cuius regio eius religio. Essi imposero, oltre alla religione, anche una stessa lingua sul proprio territorio cercando di omologare e uniformare il popolo a una stessa identità e nazione.

Hobbes non fa altro che teorizzare quello che ormai stava accadendo in Europa da anni. Contemporaneamente all’idea di stato-nazione occorreva aggiungere l’idea che il Re non fosse altro che una scelta razionale degli individui ormai liberi e proprietari di sé. Assolutismo e individualismo nascono nello stesso periodo perché fortemente integrati e corrispondenti. Hobbes immagina che gli uomini in natura siano tutti uguali, spinti dalle stesse necessità naturali, e abbiano gli stessi diritti naturali. Benché una parte di questi debba essere alienata in favore del re e dello Stato, tali diritti permangono nella misura in cui è il cittadino stesso che vi rinuncia a favore della sicurezza e della forza dello Stato. Paradossalmente, il patto principale e sostanziale avverrebbe per Hobbes verticalmente tra popolo e re. Hobbes teorizza quello che Machiavelli auspicava per gli Italiani e Bodin descriveva per legittimare la sovranità francese.

Ciò che si nasconde dietro la politica hobbesiana è la necessità di rafforzare militarmente lo Stato inglese che ormai rischiava di cadere sotto gli attacchi dei francesi, degli spagnoli e delle divisioni interne politiche e religiose. In parte è anche quello di supporre filosoficamente un parallelismo tra politica e fisica sulla base dell’atomismo democriteo[3]. Ogni cittadino è come un atomo simile all’altro, che sbatte violentemente contro altri atomi, si aggrega e si disgrega. Più atomi riescono ad aggregarsi, più la sostanza che si forma è forte, coesa e imbattibile. Ciò che può aggregare è una forza esterna ma necessaria, perché gli atomi di per sé tendono ad allontanarsi: è la forza di un potere superiore. “Per il giusnaturalismo scientifico di Hobbes l’individuo è un centro di energia e lo stato è l’unità che, formatasi dal vortice di questi atomi, inghiottisce l’individualità”[4]. Pertanto, il sovrano è legittimato doppiamente: sia perché sarebbe scelto naturalmente dai cittadini; sia perché è l’unica forza che, seppure artificialmente, permetterebbe la coesione stessa. Nei fatti il sovrano è chiamato ora a governare e a modellare una popolazione che deve produrre ricchezza attraverso il lavoro, difendere militarmente il territorio conquistato, garantire sicurezza all’interno dello Stato stesso[5]. Gli strumenti di cui si serve sono rispettivamente la ragione di stato, il sistema diplomatico-militare, la polizia. L’individuo, una volta alienata la sua libertà pubblica e politica allo scopo di conservare le sue necessità vitali, si sottomette volentieri al potere politico del sovrano. Dopo secoli di questa ingegneria sociale gli stati nazionali hanno tenuto, pur trasformandosi spesso in democrazie e repubbliche, i loro confini. Li hanno tenuti, dopo averli modificati, conquistati, persi. Ma l’idea dello stato-nazione è data ormai come un fatto di ragione e di realtà. Così come ancora vi è la convinzione, almeno in Occidente, di individuo autonomo e libero, con i suoi diritti considerati naturali e universali. Queste due idee, quella di stato-nazione e di individuo borghese, tuttavia si sostengono, e l’una è la garanzia dell’altro. Non vi sarebbe l’individuo senza stato-nazione e viceversa. Ma, come ammonisce Arendt, “dopo aver avuto la meglio sul cittadino, l’individuo si dovrà difendere contro una società che a sua volta avrà la meglio sull’individuo” [6].

Ciò che alla fine Hobbes ha volutamente sottovalutato da un punto di vista filosofico, sono le forze che esprimono gli individui stessi. Lui pensava sempre partendo da un punto di vista individuale, e riteneva che ciascun individuo fosse uguale all’altro anche nella sua forza. Quello che Hobbes dimentica nella sua costruzione artificiale del Leviatano è che gli individui possono, per aumentare la loro potenza, allearsi con pochi “amici”: amici non sono coloro che si alleano, ma si alleano perché sono amici. Nel Gorgia, Socrate giustamente fa notare a Callicle che la forza dei più è sempre superiore ad un solo individuo. Invece l’uguaglianza naturalistica democritea diventa in Hobbes un fondamento giusnaturalistico superato solo dalla forza di legge che ha il compito di mantenere atomizzati gli individui. Che cos’altro è quell’illustrazione tragicomica del Leviatano composto da squame, una identica all’altra, che assomigliano lontanamente a teste di uomini? Hobbes, così realista, così amante del pensiero di Tucidide, non vede che le alleanze sono sempre provvisorie, che possono avvenire spontaneamente e mutare rapidamente in forme diverse, e che una massa informe, composta da individui razionali che si unisce d’emblée con un patto di unione per diventare un popolo, è una forzatura utopica, la cui proposta non ci saremmo aspettati da un realista come lui. Insomma, il Leviatano è una enorme utopia giuridico-politica nel tentativo, secondo Foucault, di superare e neutralizzare i conflitti originati tra i popoli indigeni e le “conquiste” dei popoli nordici che avvennero per secoli, come per esempio in Inghilterra, tra “razze” diverse come i Sassoni e i Normanni[7].

L’utopia hobbesiana è rilanciata con forza da Rousseau che non fa altro che livellare ulteriormente il ragionamento di Hobbes portandolo alle sue estreme conseguenze: se è il popolo stesso a sorreggere la sovranità, si può fare a meno, oltre che di Dio, anche del sovrano. Gli individui proprietari di sé da un punto di vista socio-politico riconoscono adesso la loro individualità nel fatto che anche il loro dio interiore lo vuole. Il calvinista Rousseau[8] non trova faticoso fare a meno dell’ipotesi del sovrano come quella di un dio qualunque. Lo Stato si muove da sé, posto che ogni cittadino singolarmente preso, agisca sulla base del proprio dovere: “Non vi sono più corpi intermedi, non vi sono più volontà che non siano quelli degli individui e del corpo politico per eccellenza, lo Stato”[9]. Dentro questa gigantesca invenzione, questa forzatura ideologica e giuridica[10], questa pia illusione, scivolano tutte le altre teorie che da Hobbes avevano preso le mosse: il contrattualismo democratico di Spinoza, di Locke e di Rousseau ma anche l’autoritarismo e il totalitarismo che basavano il loro consenso su una presunta presa di coscienza da parte dei soggetti.

Quello che invece è accaduto e accade realisticamente è che i cittadini si alleano spesso per i propri inter-essi che sfuggono agli interessi di tutti o del sovrano o di uno Stato. Non si dà individualismo che compone una società più o meno omogenea ma microcomunità, “saperi locali”, gruppi più o meno solidali che esercitano il loro potere in conflitto con altre nelle forme più disparate. La modernità è stata un esperimento mostruoso e artificiale di centralizzazione del potere da parte di alcune forze sovrane, spesso imparentate tra di loro, nel tentativo, prima di omologare i territori conquistati, poi di uniformare la religione che tendeva a dividere; infine essa ha sottomesso gli individui che dovevano obbedire e lavorare per lo Stato demolendo così le differenze linguistiche, culturali, giuridiche, politiche, economiche, religiose, territoriali di intere popolazioni. Per secoli si è provato a uniformare le differenze culturali dell’Europa e ad accentrare il potere nelle mani prima di un sovrano assoluto e poi di una élite economico-finanziaria che si è sostituita a lui. Il fascismo, il nazismo e il comunismo non sono stati che l’ultimo esperimento in ordine di tempo di omologare regioni così diverse come l’Italia, la Germania, l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, ma anche la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna, per fare solo qualche esempio relativo alla storia europea. È cos’è infine la democrazia postbellica se non un enorme tentativo di livellare le differenze culturali, sociali, intellettuali distruggendo o negando ovunque le pluralità, le differenze e le bioculture? Non è in fondo, la democrazia che conosciamo oggi, un tentativo volto a livellare, di fronte a Dio, tutti gli uomini? E che ha le sue radici nel protestantesimo e, in particolare, nel Puritanesimo? D’altronde, l’invenzione della sovranità ha persistito a lungo “come ideologia e come principio di organizzazione dei codici giuridici” fino a fissare in profondità “la democratizzazione della sovranità” [11] attraverso meccanismi coercitivi e disciplinari.

Prima della modernità, durante il medioevo, invece, vi erano gruppi sociali secolari che avevano resistito a lungo all’omologazione e alla sudditanza dei re e degli imperatori. Corporazioni, ceti, città, feudi, contadi provavano ancora a mantenere una certa libertà culturale e politica. In pochi secoli non si è ancora dileguato quel sentimento amicale e naturale che vede, da un punto di vista evoluzionistico, raggruppamenti di poche centinaia di persone formare clan, fratrie, tribù. Quanto di questa libertà ad associarsi in piccoli gruppi è andata perduta non è facile stabilire. Il fatto è, e non poteva essere diversamente, che molte forze centrifughe, dopo la caduta del muro di Berlino, e la fine della paura che spingeva le genti ad unirsi, si sono riproposte formando comunità sempre più marcate e su un territorio sempre più limitato. Contro il Leviatano ‒ un superstato considerato, per dirla con Nietzsche, il più gelido dei mostri ‒ è in atto un tentativo di riappropriarsi di quella identità perduta contro l’omologazione coatta dell’Impero.

Note

[1] Non dimentichiamoci però che il linguaggio, nella sua etimologia, lascia chiare tracce della sua storia. La parola cittadino infatti richiama significativamente l’idea di città medievale con le sue prerogative giuridiche e sociali. Per un primo inquadramento del termine, P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Laterza, Bari-Roma 1999.

[2] M. Horkheimer, Teoria critica, Einaudi, Torino 1968.

[3]  A. G. Gargani, Hobbes e la scienza, Einaudi, Torino 1971, ma anche a M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia, Einaudi, Torino 1978.

[4] C. Schmitt, La dittatura, Edizioni settimo sigillo, Roma p. 151.

[5] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.

[6] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2006, p. 154.

[7] M. Foucault, Difendere la società, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, pp. 65-81.

[8]  L. Dumont, Saggi sull’individualismo, Adelphi, Milano 1993.

[9] D. Quaglioni, La sovranità, Laterza, Bari-Roma 2004, p. 85.

[10] Sulla centralità del diritto che “si organizza intorno al problema della sovranità che ha essenzialmente il ruolo di fissare la legittimità del potere” si vedano ancora le pagine antigiuridiche di M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 31-32.

[11] Ivi, p. 18.

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