Sandro Borzoni (1973) collabora da diversi anni con l'editoriale "IF Press" ed è membro del comitato scientifico della rivista interdisciplinare «Información Filosófica». Ha studiato filosofia antica con Giovanni Reale e Roberto Radice all'Università Cattolica di Milano e all'Universidad de Deusto di Bilbao con Carlos Beorlegui e Andrés Ortís Osés. Nel 2009 ha conseguito il dottorato di ricerca europeo all'Universidad de Salamanca con una tesi su Miguel de Unamuno sotto la guida del prof. Jean-Claude Rabaté. Dal 2000 insegna filosofia e storia nei licei. Attualmente è docente presso il Liceo Classico e Linguistico "Carlo Alberto" di Novara.

Recensione a
Sebastian Schwibach, Discordia concors. La «perennis philosophia» tra crisi del mondo moderno e Rinascenza
prefazione di Francesco Fronterotta, postfazione di Luciano Albanese
Stamen, Roma 2017, pp. 363, €16,00.

È sempre più raro trovare un lavoro di ricerca che si orienti sulla storia delle idee a 360º, anche nel campo della filosofia gli studi specialistici sono la regola, e un libro come quello di Schwibach l’eccezione. Ma l’occhio dell’autore è rivolto al mondo, a quel mondo che nell’uomo antico suscitava ancora stupore, ammirazione, adorazione, non noia. Il saggio si articola in tre parti, ed ognuna delle tre gode di vita propria, per così dire, perché affronta il problema dell’essere sotto prospettive storicamente differenti.

La constatazione di una crisi, della crisi del mondo moderno, ben lungi dall’essere una possibile interpretazione del presente, sembra la presa di coscienza di un fatto oggettivo. L’uomo ha perso il contatto con la natura e con se stesso. Senza la consapevolezza del luogo in cui vive, circondato da una natura matrigna e non più madre (Leopardi), che va cambiata e non accettata, senza un senso da dare al proprio essere nel mondo, orfano di ogni certezza, l’uomo approda inevitabilmente alla fine di ogni valore. Nel poema di Pascoli Il Ciocco, il tronco di quercia che brucia, diviene la metafora del mondo, dal quale ci allontaniamo senza neppure averne intravisto il mistero. A quella “morte di Dio” che Nietzsche aveva profetizzato, sembra fare eco con la sua letteratura il Marchese de Sade, che aveva accettato il completo estraniamento dell’uomo costruendo il suo impero dei sensi, facendo dell’essere umano un automa, una macchina del piacere (o del dolore). La crisi, però, può essere compresa meglio se proviamo a focalizzarci su tre cause che hanno privato la filosofia della sua primaria ragion d’essere, ossia la ricerca della Verità. La prima causa, come abbiamo compreso, è una nuova visione del mondo nel quale, da Cartesio in poi, si viene a creare una rottura fra soggetto e oggetto. La natura è qualcosa di esterno a noi, da declinare in funzione dei nostri bisogni. Lo sfruttamento della natura è il nuovo telos. Il bosco sacro, ora, è una risorsa energetica. La seconda causa della crisi è apparentemente arbitraria, secondo Schwibach, perché uno dei segni della decadenza attuale è proprio la fine della filosofia come forma di vita. A prima vista, infatti, potrebbe sembrare che la pratica filosofica non riguardi direttamente la società, ma che al massimo influisca solo sull’individuo. Effettivamente la pratica filosofica, ai giorni nostri, non è più un bios teoreticos, ma consiste in un’attività di ricerca fra le tante, e il ricercatore è un funzionario statale che, dopo aver concluso le sue ore di lavoro in dipartimento, si dedica ad altro. Ma l’orizzonte della filosofia non dovrebbe essere l’agone universitario, la dialettica che ha il sapore scolastico delle medievali quaestiones: «la forza del logos dovrebbe guidare l’uomo alla pacificata felicità contemplativa della verità e del bello. […] Pacificata nel senso eracliteo, per cui la tragicità del reale si mostra della sua essenza di armonia invisibile» (pag. 76 e n. 170). La terza causa, infine, è il mancato riconoscimento dell’intuizione intellettuale che confina la filosofia ad una precettistica morale, dimenticandone completamente il valore soteriologico che invece era ben presente in Platone o in Meister Eckhart. Così, al cambiamento nella visione del mondo, alla marginalizzazione della filosofia come forma di vita (una pratica accademica come molte altre), si affianca anche il progressivo oblio dell’intuizione intellettuale e l’impossibilità di credere che si possa giungere alla conoscenza di Dio a partire dal mondo immanente intorno a noi. Persino la fede stessa in una ricerca della Verità è venuta meno, l’intuizione intellettuale di un Assoluto, il ritorno ad una originaria unità di pensiero ed essere, di soggetto e oggetto, sembra del tutto tramontata: «la realtà risulta grigia, non esiste alcun modello da seguire né nell’ambito politico, né nell’ambito individuale, né in quello religioso, non esiste alcun vero fine, alcun orizzonte di senso né alcuna possibilità di superamento della propria mediocrità» (p. 88). Anzi, chiosando questa riflessione dell’autore, oserei spingermi ancora più in là, sembra che oggi la mediocrità sia incoraggiata e accompagnata.

Se la prima parte del lavoro descrive la crisi del mondo contemporaneo, nella seconda parte del libro si guarda alla storia della Perennis Philosophia Scrivere una storia di questa filosofia perduta è difficile, non si tratta di un percorso lineare. Ritrovare l’origine di questo pensiero assomiglia piuttosto al percorso accidentato e faticoso di chi risale alla sorgente di un fiume. Il primo ad usare l’aggettivo perennis con riferimento alla filosofia fu Agostino Steuco. Questo eruditissimo agostiniano che fu bibliotecario a Venezia e successivamente a Roma, presso la Biblioteca Vaticana, prese parte al Concilio di Trento, lavorando ad una sintesi fra il pensiero magico religioso degli antichi, la filosofia greca, e la dottrina cristiana, sperando così di poter riportare unità «nel dilacerato mondo cristiano […]. Ut unum est omnium rerum principium, sic unam atque eandem de eo scientiam semper apud omnes fuisse ratio multarumque gentium ac literarum monumenta testantur.» (p. 157). Ma l’indagine di Schwibach inizia ancor prima con Giorgio Gemisto Pletone, Nikolaus von Kues (il Cusano) e il cardinal Bessarione, che da Costantinopoli fecero rotta verso l’Italia per prendere parte al Concilio di Ferrara nel 1437. Grazie a quella Prisca Theologia da cui era nato il cristianesimo, speravano di poter riunire la Chiesa di Roma e la Chiesa d’Oriente. Da Ferrara il Concilio fu spostato a Firenze, e nella villa di Careggi, dove sorse grazie al mecenatismo di Cosimo de Medici la nuova Accademia. Nella villa di Careggi trovarono casa Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Il rifiorire dell’idea di una filosofia perenne nel corso del XV e XVI secolo aveva anche prodotto numerosi tentativi di sintesi fra platonismo e aristotelismo (Schwibach si sofferma in modo interessante sul De ente et uno di Pico), con la ripresa di interpretazioni del pensiero antico anteriori a quelle medievali, che affondano le loro radici almeno nel Medioplatonismo e, naturalmente, nella sintesi di Plotino e dei neoplatonici, che per primi declinarono il pensiero pagano con quello cristiano. A Marsilio Ficino si devono le traduzioni delle Enneadi di Plotino e del Corpus Hermeticum, ma anche, nel De Christiana religione, l’affermazione di un’unica rivelazione divina della Verità, che nel pensiero pagano venne in qualche modo intravista da Zoroastro, Pitagora, Orfeo e finalmente da Platone e dai suoi successori, e trova la sua più chiara espressione in Plotino. Di questa idea era anche Giorgio Gemisto Pletone: la vera religione era il Cristianesimo, e la vera filosofia quella platonica, e visto che sgorgavano ex una fonte, dalla medesima sorgente, non erano in contrasto fra di loro. Diverso il compito che si era invece posto Pico della Mirandola, che mirava ad una pax philosophica attraverso la ricerca della Verità, che per lui coincideva con quella sorgente comune dalla quale fiorirono tutte le filosofie pagane e la religione cristiana, e la filosofia di Cusano si rivolge proprio a quella reductio ad unum che possa superare ed integrare le differenze in un tutto. A Patrizi viene riconosciuto un tentato sincretismo fra cristianesimo e tradizioni esoteriche dell’antichità, molto in voga nel Rinascimento del Quattrocento. Seguendo forse più gli oracoli caldaici e il neoplatonismo che non la filosofia cristiana, Patrizi parla di una ascesa alla luce di Dio padre attraverso una concatenazione ontologica che lega ciascuno degli enti a tutti gli altri e al suo primo creatore. «Ogni ente, pur distinto e limitato, somiglia, infatti, all’Uno-tutto» (p. 164). A Giordano Bruno, invece, più scettico nei confronti della Chiesa del suo secolo, si deve la formulazione di una nuova teologia che vorrebbe coniugare i misteri dell’antico Egitto con la religione, superando le rigidità dogmatiche che avevano diviso la cristianità nel corso della Riforma. Più che dalla necessità di superare la teologia dogmatica, però, buona parte del pensiero rinascimentale, rifacendosi alla perennis philosophia, provò ad armonizzare il pensiero tardo antico e il cristianesimo «nell’innata convinzione che, se la verità è unica, non valga la pena di fossilizzarsi su particolari linguaggi o espressioni filosofiche – che – non sia utile rinchiudersi entro un sistema chiuso» (p. 133). La seconda parte si chiude con uno sguardo alla Philosophia perennis nel mondo ellenistico e tardo antico, passando attraverso autori ben noti come Plutarco, Numenio, Plotino, Porfirio ed alla sua ripresa in età moderna con Elémire Zolla, René Guénon, Aldous Huxley.

La terza ed ultima parte del saggio, è interamente dedicata a tre degli autori menzionati poco sopra: Niccolò Cusano, Giovanni Pico della Mirandola e Giordano Bruno. Pur consapevole delle marcate diversità fra i tre, sia a livello di indole umana che a livello metodologico, Schwibach ritiene che mettendo da parte l’esuberanza di Bruno, la cavillosità cabalistica di Pico e il sogno di una impossibile riforma della Chiesa accarezzato dal ponderato Cusano, si possa concentrare invece l’attenzione su quelle tematiche comuni fra i tre filosofi: in loro si riscontra un filo di Arianna che li lega alla filosofia perenne. La concezione di Dio del Cusano è affascinante, e si parte proprio dal Cusano in questa ultima parte del saggio che è strutturata in modo circolare. Da Dio, si arriva all’uomo e alla natura, mentre il Conte della Mirandola inizia il suo viaggio dall’uomo, e si solleva a Dio, luce che illumina, sia l’umano intelletto che la natura. Il domenicano di Nola, infine, riflettendo sulla natura, ritorna all’uomo e a Dio. Fra i tre, il destino più tragico toccò a Bruno, non tanto per il rogo di Campo dei Fiori, ma per l’essere nato fuori tempo, in un secolo in cui le guerre di religione ormai dilaniavano l’Europa e impedivano il dialogo disinteressato di chi cerca la Verità. Lui andò controcorrente, ma non poté fermare il passo della Controriforma. Ciascuno, però, morì senza coronare il sogno di una rinata filosofia vissuta in prima persona, che potesse dare all’uomo la dignità che gli spetta, senza poter percorrere fino in fondo la via nella quale l’Assoluto è in grado di non astrarre l’uomo dal mondo «ma di illuminarlo e farlo risplendere di colori nuovi» (p. 334).

La filosofia perenne ha una visione sintetica del mondo, cerca di leggere il legame intimo delle cose, la loro armonia nascosta (armoníe aphanés) nel mito, nel pensiero, nell’arte, nell’atto devozionale, e in ciascuna di queste attività umane svela una partecipazione all’unità del tutto, come ogni singola onda, con il suo riflesso, compone il mare. Questa sophia, che forse all’origine era stata scorta in lontananza da antichi sapienti, come avverte Giorgio Colli nel suo prezioso La nascita della filosofia, saggio che Schwibach ha ben presente nella stesura di tutto questo saggio, oggi è dimenticata. Ma senza la filosofia, come si dice nell’Asclepius, resta sulla terra una stirpe di uomini e donne annoiati e privi di ogni “meraviglia”: «Questo universo buono di cui non vi è mai stato, non vi è e non vi sarà mai, per quanto si possa vedere, niente di meglio, sarà in pericolo e diverrà un peso per gli uomini. Perciò sarà disprezzato (contemnetur), non sarà più amato questo mondo, inimitabile opera di Dio» (p. 15).

 

Loading