Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a
L. Di Gregorio, Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico
Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 316, €18,00.

La negazione del passato, in apparenza ottimistica e progressista, rivela – a un esame più approfondito – la disperazione di una società incapace di affrontare il futuro (C. Lasch).

Si sente dire spesso e un po’ ovunque che la democrazia è in crisi. Ma in quale senso sarebbe in crisi? E perché? Quali sono le cause profonde di questo sentire pessimistico, o forse solo realistico? Per capire in modo chiaro e pulito cosa ha portato il mondo occidentale, diciamo liberal-democratico, alla situazione attuale può essere utile e proficuo leggere il bel lavoro di Luigi Di Gregorio Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico (Rubbettino, 2019, pp. 316, 18 €).

Va subito fatta una doverosa premessa: chi s’illude di trovarvi un prontuario volto a risolvere i problemi della modernità politica (e non solo), rimarrà deluso. D’altronde, chi potrebbe pensare che un’analisi possa essere tanto velleitaria quanto presuntuosa? Non è evidentemente nelle intenzioni dell’Autore. Nondimeno il libro offre notevoli e interessanti spunti di riflessione, soprattutto in merito ai sintomi della crisi sul versante degli “input” (si veda la figura 13 a p. 45; per quanto attiene ai sintomi sul versante degli output si veda la figura 15 a p. 56). E il punto di partenza – che è poi anche il punto di arrivo, giacché, come sopramenzionato, la terapia non consiste nel fornire un catalogo di riforme istituzionali pronte da applicare, bensì nel prendere atto del (doloroso) punto di partenza e su questo agire con umiltà e realismo – è il seguente: «la democrazia è malata perché è malato il demos. E il demos si è ammalato “inevitabilmente” (una sorta di malattia autoimmune e degenerativa) perché la sua patologia è il derivato della lunga transizione alla postmodernità: individualizzazione, perdita di senso sociale, fine delle metanarrazioni, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, narcisismo, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, trionfo della sindrome consumistica e della logica totalizzante dell’“usa e getta”, fine dei luoghi pubblici relazionali e proliferazione dei nonluoghi» (p. 11).

Ciò che Di Gregorio sostiene, in buona sostanza, è che il punto di approdo della “postmodernità” è quasi un esito necessario del lungo ma lento cammino della modernità. Questa, se da un lato ha portato alla liberazione delle forze e delle energie creative individuali, per contro ha ingenerato alcune degenerazioni che erano in nuce già nel suo grembo. L’individualismo, il pluralismo, il politeismo dei valori, la critica delle autorità, l’apertura al mondo (con evidenti ripercussioni sia in ambito spaziale che temporale) se non frenate, se non poste sotto il controllo degli stessi individui, possono essere esiziali (si veda lo schema esplicativo del passaggio dalla modernità alla postmodernità a pp. 152-53).

Insomma la crisi, prima che essere politica in senso stretto, è ad essa anteriore: è di ordine socio-culturale. Il disorientamento che la perdita di orizzonti morali condivisi, di luoghi comuni identitari e relazionali, di un tempo che non ha più profondità, ma è che consumato dall’istante, dal qui ed ora, da immaginari (deboli) che vanno consumati nell’immediato, ha pesanti e nefaste ricadute sul tessuto democratico: l’opinione si è fatta emozione (più incerta, precaria e volubile di prima), mancano solidi punti di riferimento (con conseguenti crisi di senso), il pluralismo è divenuto stolido nichilismo, il contenuto è stato eroso (definitivamente?) dalla forma. Ne consegue anche una politica sommamente indebolita, incapace di proporsi come elemento necessario (e, in taluni casi, positivo: a patto di non assorbire l’intera esistenza individuale) della vita in comune, divorata dai sondaggi, alla perpetua ricerca di nuovo materiale da dare in pasto ai social network.

E il cittadino? È ormai un consumatore affamato di sempre nuove figure di cui infatuarsi in modo effimero: ecco uno dei temi della crisi sociale (prima che politica) delle nostre società, ovvero la caducità spinta al parossismo. Una società (e una politica) compressa sul presente, bramosa di consumare senza alcun progetto, irrefrenabilmente spinta ad elaborare idee (diciamo aride proposte: le idee sono rimaste nei libri dei classici) senza alcun retroterra valoriale pensato e criticamente discusso, schiacciata dalla e sull’orizzontalità della comunicazione “uno vale uno” (resa possibile dai social), porta Di Gregorio a sostenere che è con noi stessi, in primis (e forse anche in ultima istanza), che bisogna fare i conti. La politica (e le dinamiche sociali prima di essa) è ormai imperniata su tre parole-chiave, ovvero istinti, istanti e immaginario: «chi non lavora sugli istinti – cioè sulle emozioni/percezioni – in un’ottica di brevissimo periodo e senza costruirvi su una narrazione potente è tagliato fuori» (p. 10).

Con una vena di mestizia l’Autore sostiene che non si può che agire su queste «logiche dominanti, provando a contrastare i sintomi più pericolosi. In una formula sintetica, se la politica di oggi è assimilabile a un festival di narrazione o a una battle of narratives, occorre contro-narrare per provare a bilanciare le tendenze “pericolose” per le democrazie liberali» (pp. 294-95) e per la società, dunque nelle sue variegate e plurali comunità pre-politiche, nel suo complesso. Inane risulterebbe proporre fantasmagoriche e suadenti riforme onnicomprensive: tocca fare i conti con noi stessi, se ne siamo (ancora) in grado.

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