Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma

Recensione a
C. Alvaro, Vent’anni
Bompiani, Milano 2016, pp. 387, €15,00.

Un’inutile strage, come definita da Papa Benedetto XV o il mito della virilità e modernità? A un secolo, ormai, dall’anniversario della fine dalla prima guerra mondiale, il distacco aiuta a riflettere sulla lunga distanza e a ragionare su come quella della Grande Guerra rimarrà, senza dubbio, la pagina indelebile e l’esperienza principale nella vita di chi l’ha combattuta, il punto di riferimento per la narrativa critica degli anni successivi e un’onda lunga che mai si infrangerà sulla diga del 1918.

Saranno proprio la distruzione e gli orrori dei massacri, in uno scenario bellico senza precedenti, a convertirsi nella forza generatrice di scritture e spingere intellettuali da ogni parte del mondo a fissare nero su bianco pagine di grande intensità capaci di dar voce, attraverso memoriali, diari, poesie e romanzi a un’intera generazione chiamata al fronte. Si scrive in trincea, nell’attesa dell’assalto, negli uffici o, come sceglie di fare Corrado Alvaro in Vent’anni, una volta tornati a casa. Spinto dalla necessità di testimoniare e ricordare il passaggio dall’età della giovinezza a quella di una dolorosa maturità, lo scrittore e giornalista di origini calabre incentra la narrazione sulla propria esperienza autobiografica trasportandoci nel filo spinato della Grande Guerra e dei suoi ineffabili episodi di eroismo.

Il protagonista del romanzo è Luca Fabio che, proprio come Alvaro, è un ragazzo meridionale del ’95, convinto interventista giunto a Firenze con l’animo pieno di fantasie per frequentare il corso di allievo ufficiale, riconoscendo nella guerra il grande pretesto di evasione dall’adolescenza verso la giovinezza virile. Alla sua esperienza bellica si accompagnerà la delicata ma al tempo stesso profonda storia di amicizia con il caporale Attilio Bandi, giovane borghese, già “erede della Storia” e nipote di un eroe del Risorgimento costretto ad arruolarsi volontario in aderenza alla tradizione familiare.

Si compie in Vent’anni una scoperta del male nella Storia, dove l’irrequieta scontentezza e la disillusione dei due ragazzi fanno da elemento centrale dell’opera. Inviati al fronte nel maggio del 1915, Luca e Attilio sperimentano insieme le inquietudini e i dolori di un nuovo cammino a cui concorrono in massima parte gli incontri sul campo, le donne di guerra – «compagne di un lungo sonno oblioso, qualcosa come la madre per un bambino che si sveglia nel buio» (pp. 297-298) – ma anche la disciplina e il coraggio della prima linea, in un continuo faccia a faccia con la precarietà della vita.

Mentre Attilio rievoca l’irrealizzato rapporto affettivo con il padre, Luca, nella notte che precede il primo combattimento, ribadisce la sua visione ormai demitizzata della guerra, non più banco di prova e terreno di ambizioni per la giovane nazione, ma quintessenza della fatica umana più primitiva e orrenda realtà di morte e distruzione. «Si è tornato a uno stato primitivo come tra selvaggi […] fanno di tutto per avvilirci e umiliarci; una buca stretta senza potersi muovere, senza poter levare la testa; il fuoco concepito come la razzia contro le cimici. […] Vogliono sopprimere col fuoco ogni elemento di pensiero e ci riescono. È come se il mondo dovesse seguitare a vivere per anni tra torrenti di pioggia, grandine e fulmini» (pp. 248-249).

Il disincanto si fa cruda denuncia delle illusioni di quei ventenni che danno il titolo al romanzo. Infatti, saranno proprio i vent’anni, che il protagonista si accorgerà d’improvviso di avere ormai solo di nome, a diventare il vero emblema di una guerra che ha strappato via i sogni della giovinezza, annullato i divari generazionali e messo indistintamente tutti di fronte a un continuo banco di prova con la morte. «Chi poteva dire che età avesse Fabio? […] erano i vent’anni di un mondo lontano e d’una generazione vissuta, i vent’anni di un vecchio ritratto sbiadito. Tutti avevano vent’anni; ma tra quegli avvenimenti erano tutti rimasti col cuore di quindici, e i pensieri e i sogni e le nostalgie dell’adolescenza, quando non si è come tutti e si vorrebbe essere» (p.295) – riflette l’Autore.

Nel corso del romanzo si realizza la progressiva sconfitta degli ideali interventistici. L’ansia di evasione e di modernità finisce per coincidere con la vuotezza di alcuni ordini, il disordine degli assalti e l’irrazionalità di una guerra combattuta che porta solo alla strage di uomini. Al soldato alvariano, ormai deluso nelle ambizioni di grandezza e negli ideali di una guerra leggendaria d’altri tempi fatta di gesta eroiche, non sembra rimanere altro che fare il proprio dovere. «C’è una sola parola che ci sorregge: il Dovere. Ci siamo attaccati tutti a questa parola come all’unica salvezza. I morti stesso hanno finito a consolidare questa legge del dovere. Prima era una parola, una cosa astratta, una parola imposta a noi fin dall’infanzia e quasi un diporto. Ora, da quando ci sono i morti, è una realtà. Fino a che si può morire, c’è dovere» (p.358).

La testimonianza di Corrado Alvaro su questa guerra vera e non mitizzata, unita alle voci di numerosi altri intellettuali, obbliga a una riflessione più ampia su cosa abbia rappresentato, e rappresenti tuttora, l’Epica della Grande Guerra. Ecco, siamo di fronte a una letteratura che attraverso pagine che documentano il sentire sociale e politico di un popolo si fa interprete di uno degli argomenti più complessi e contraddittori della civiltà. Quella del primo conflitto mondiale è la storia di una guerra che non viene raccontata dal punto di vista dei vincitori o dei vinti, ma dalla prospettiva globale di chi, indistintamente, si è trovato catapultato in questa nuova esistenza travolgente e ha vissuto gli stessi sentimenti contrastanti, ma mai inquinati dal giudizio di merito su chi è buono o cattivo, su chi ha vinto e su chi ha perso.

Pur rimanendo lontani dagli antichi canti omerici degli eroi e delle battaglie, la letteratura della Grande Guerra si avvicina all’Iliade di Omero per l’equivicinanza rispetto ai combattenti in campo. Se l’Iliade assurge a caposaldo della letteratura greca e occidentale in quanto racconto non ideologico, ma poema inclusivo e partecipativo con tutti (Omero è troiano quando racconta le vicende di Troia, è acheo quando racconta le vicende degli Achei), l’Epica della Grande Guerra può essere dichiarata un genere transnazionale slegato dalla contingenza storica. Non è la prima volta che si combatte su due continenti e che si scontrano più potenze contemporaneamente. Ciò che muta, però, è una congerie di fattori che fanno della prima guerra mondiale un conflitto per la prima volta veramente europeo, globale e totale che arriva a coinvolgere in tutte le direzioni l’intera società, le istituzioni politiche e gli apparati economico produttivi come mai prima d’allora.

È il concetto, quindi, di una letteratura che nasce spontaneamente e soprattutto non con la finalità di demonizzare il nemico. Se c’è una condanna è solo nei confronti dell’aspetto inimmaginabile di questo scontro dove a comandare sono le macchine che lasciano il soldato di fronte a una condizione d’impotenza e in cui l’unico eroismo in grado di manifestare è quello della sopportazione. I giovani che si spingono al fronte con lo spirito dell’Ottocento si trovano proiettati in un futuro che però non è prevedibile e se la vita nel fango delle trincee scandisce l’ormai irreversibile caduta del mito risorgimentale della guerra, nessuno si nasconde più la crudeltà delle vicende che realmente vive. Nasce un vero e proprio genere letterario con un nuovo linguaggio e un nuovo modo di comunicare basato sull’estetica dell’orrore: non più eroi e guerrieri, ma contadini e artigiani immersi nelle viscere della terra fra attese interminabili di assalti e la conquista di pochi metri di terreno.

La concezione disillusa di Corrado Alvaro si rivela anche nel finale aperto del romanzo che termina con una riflessione malinconica sul ruolo che attende coloro che sopravvivranno al conflitto: «che ci resterà da fare domani, se torniamo nel mondo? Temo che tutto ci parrà un gioco inutile» (p. 362), così riflette Luca Fabio che scoprirà ben presto che la guerra è diversa da come la immaginava e che la distruzione non è soltanto quella del campo di battaglia, dei caduti e dei feriti, ma ugualmente quella dei superstiti. Gli eroi sono quelli delle vite concluse; gli altri, i reduci, saranno destinati a rappresentare un corpo estraneo in quel mondo ordinato cui verranno riconsegnati e in quella vita borghese delle città in pace con cui sarà difficile identificarsi. La guerra è diventata, come ci ricorda Arturo Stanghellini, l’introduzione alla vita mediocre: la vita borghese fatta di finti valori con i quali bisogna riconfrontarsi.

L’importanza di leggere Vent’anni oggi sta proprio in questo: riflettere e ricordare la scelta di tanti ragazzi dalle incerte prospettive che s’immolarono in nome dell’onore, dell’amore di patria e dell’attaccamento alla bandiera per avvicinarsi sempre più a quella comunità solidale di uomini chiamata popolo. Delineando il cangiante stato mentale di ufficiali e soldati in uno stile che non cede mai al moralismo, Corrado Alvaro ci lascia una traccia di eternità umana e ci consegna un’opera il cui significato non smette di essere valido ora come allora. Riscoprire a distanza di un secolo questa immensa letteratura di guerra, significa dunque riassaporare un’etica oggi scomparsa.

 

Loading