Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.

Vietato studiare, vietato insegnare

Recensione a: Vietato studiare, vietato insegnare. Il Ministero dell’educazione nazionale e l’attuazione delle norme antiebraiche 1938-1943, a cura di Vincenza Iossa e Manuele Gianfrancesco, Palombi Editori, Modena 2019, pp. 284.

Il volume, prefato da Michele Sarfatti, è importante, senza dubbio alcuno, che mette a disposizione degli studiosi del fascismo, del razzismo, dell’antisemitismo, della storia della scuola e degli apparati istituzionali e amministrativi una selezione amplissima delle diverse tipologie normative, dalle leggi ai decreti, dai regolamenti alle circolari, dai concorsi alle borse di studio e ai premi, raccolte nel Bollettino ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale e volte a dare corpo alla politica antiebraica intrapresa in Italia a partire dai Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista del settembre 1938. Tramite questo sforzo, capillare e pervasivo, come ricorda nell’introduzione il giovane studioso Manuele Gianfrancesco, «furono allontanati [dai loro posti] i membri del personale scolastico, bibliotecario e amministrativo – tanto dell’Amministrazione centrale quanto dei vari Istituti, Accademie, Università – in ogni sua declinazione: insegnanti, presidi, ispettori, assistenti, direttori, primi segretari, vice-segretari, ragionieri, architetti aggiunti, soprintendenti, bibliotecari» (p. 25). Se la normativa avrebbe poi previsto la creazione di scuole speciali per alunni di «razza ebraica», a questi ultimi fu precluso qualsiasi accesso a borse di studio, di perfezionamento o di specializzazione.

Alla luce di tale quale quadro giuridico e istituzionale, Gianfrancesco, all’interrogativo se sia «esistita una scuola razzista in Italia», «una scuola intimamente fascista», risponde positivamente. Forte, anzi, di un indirizzo storiografico che annovera autorevolissimi studiosi, arriva a individuare nella negazione della plausibilità della categoria del totalitarismo fascista uno degli assi portanti di quell’azione di defascistizzazione volta «a supportare la più classica delle tesi revisioniste, cioè che anche il razzismo e l’antisemitismo non furono parte del modo di pensare del fascismo o di Mussolini, ma soltanto una scelta strategica nelle operazioni di avvicinamento diplomatico alla Germania hitleriana; si propone così contemporaneamente un’opera di mistificazione storica e di deresponsabilizzazione civile» (p. 23).

Quest’ultimo giudizio, però, avrebbe dovuto a nostro avviso essere meglio circostanziato, che non esigui sono i lavori che non possono confermarlo e che non avrebbero dovuto essere sottaciuti. Se Giorgio Israel, ad esempio, ha negato recisamente al razzismo antisemita «un ruolo costitutivo» (Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, il Mulino, Bologna, 2010, p. 10) dell’ideologia fascista, più in generale giuristi e studiosi delle istituzioni politiche e amministrative come Sabino Cassese e Guido Melis (di quest’ultimo si rinvia a La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018) hanno sollevato non poche perplessità sulla validità euristica della nozione di totalitarismo.

Il fascismo, d’altronde, fu un campo di tensione tra razzismi che gareggiarono per ingraziarsi i favori del Duce, razzismi che, pur presentando numerosi punti di contatto, non erano certamente sovrapponibili tout court e che annoverano, oltre a quello biologico filotedesco, quelli culturali rivendicanti il primato delle civiltà mediterranee e quello filosofico-spirituale evoliano.

Spia, forse, di tali cromatismi è d’altronde un’assai acuta osservazione dello stesso Gianfrancesco laddove si chiede se l’ingresso, a partire dal 1939, nel linguaggio amministrativo e burocratico del Ministero dell’Educazione nazionale, di locuzioni, accanto a quella di «razza ebraica», quali «razza italiana» e «razza ariana» non segni il «tentativo di affermare un nuovo prodotto ideologico e soprattutto retorico – appunto la costruzione identitaria di una presunta razza italiana o ariana» (p. 28).

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